Il mitico campione del mondo di Nettuno Bruno Conti si racconta in un’intervista a “Il Foglio” in cui ha ripercorso la sua carriera sportiva targata Roma. Quest’anno ha compiuto 50 anni di amore con la squadra della Capitale che lo ha visto indossare dapprima i panni del calciatore, poi quelli del dirigente e, per un breve periodo, anche le vesti dell’allenatore.
Di seguito un estratto dell’intervista: “Sono nato a Nettuno dove, sullo sfondo c’è uno dei mari più cari ai romani. Da ragazzino l’estate giocavo a baseball, lo sport che aveva regalato fama e gloria alla mia città. Ero uno ottimo lanciatore mancino e sembravo predestinato a una carriera luminosa. […] Il presidente del Nettuno Alberto De Carolis e il suo collega del Santa Monica chiesero a mio padre l’autorizzazione a portarmi in America. Lui ci pensò su una mezzoretta e poi declinò l’offerta. Due anni dopo ero un calciatore della Roma, la squadra del mio destino”.
L’arrivo alla Roma, la prima volta in Serie A e il Genoa: che sensazioni avevi?
“Alla Roma mi ha portato Antonio Trebiciani, l’allenatore della Primavera, che mi aveva visto giocare l’estate prima a Nettuno in uno dei tornei dei bar. Prima avevo già fatto un provino, mi era ritrovato al cospetto di Helenio Herrera. Disse al mio accompagnatore, il presidente dell’Anzio, che ero tecnicamente dotato, ma non avevo il fisico per giocare a pallone. Non me la presi più di tanto neppure quando mi bocciarono di nuovo a un provino a Bologna. La tiritera era sempre la stessa. La mia prima volta in serie A è stata il 10 febbraio 1974. La partita era Roma-Torino. L’anno dopo mi diedero in prestito per farmi, come si diceva allora, le ossa, al Genoa. La squadra conquistò la promozione e io il premio come migliore calciatore della Serie B”.
Ci racconti la gioia per lo scudetto e la delusione per la finale di Coppa campioni persa?
“Perdere la Coppa all’Olimpico, in uno stadio stracolmo di tifosi e di bandiere e, per di più, ai calci di rigori, dove purtroppo sono stato uno dei due a sbagliare, è stato, come può bene immaginare, un colpo al cuore. Non ero un rigorista. Ho tirato. Ho sbagliato. Succede, ma non doveva succedere proprio allora e proprio a me. Alcuni giornalisti scrissero che nessun calciatore al mondo aveva mai vinto, in tre anni consecutivi, un campionato del mondo, uno scudetto e una Coppa dei Campioni. Quel triplete mancato, che sarebbe stato archiviato come un unicum irripetibile, ancora un po’ mi brucia”.
Qual era il tuo rapporto con i giocatori di quella squadra?
“Al primo posto metto Agostino Di Bartolomei, il mio capitano, il mio leader, il mio amico. Dopo Agostino, quelli rimasti più vicini al mio cuore sono Ancelotti e Pruzzo, di cui ero già stato compagno di squadra al Genoa e commilitone durante il servizio militare. Eravamo fatti per giocare insieme. Io gli passavo la palla e lui gonfiava la rete. La Roma è stata e rimane la mia vita”.