FOIBE…IL GIORNO DEL RICORDO!
Quest’anno il Giorno del Ricordo, ricorrenza istituita dal 2004 per ricordare, il 10 febbraio di ogni anno, gli italiani massacrati nelle foibe ed il successivo esodo della popolazione giuliano – dalmata, cade nel momento più difficile della storia italiana del secondo dopoguerra e si svolgerà, per forza di cose, senza manifestazioni nelle varie città.
È dunque ancora più importante proporre ai lettori una riflessione su quei tragici avvenimenti, che per interi decenni, quando nessuno mai avrebbe immaginato il tremendo scenario scatenato dalla pandemia, hanno subito l’onta di un ostinato e malevolo silenzio, quello di quanti hanno scelto di ignorare e negare il dramma di un intero popolo. O meglio, di altri italiani, sistematicamente rimossi dalla narrativa politica italiana.
Di foibe e di esodo, in verità, si è parlato sempre e tantissimo, ma esclusivamente presso le famiglie delle vittime e dei profughi, i quali, con enorme dignità, sopportarono in attonito silenzio i rastrellamenti, i lutti, le privazioni e, infine, l’abbandono forzoso delle loro terre e dei loro beni, ricominciando altrove, (molto spesso in Italia, ma anche in Australia, America, Canada, Argentina, Venezuela e Brasile), una nuova vita fatta di fatica, duro lavoro, infinita malinconia e, talvolta, anche dell’incomprensione loro riservata da quanti non capivano o apertamente negavano, la portata del loro dramma esistenziale: un’identità spezzata e amaramente ricomposta nell’arco di una vita.
Di foibe e di esodo non si è invece parlato abbastanza ed onestamente, per quasi 60 anni, nel resto d’Italia, volutamente esclusa, per molteplici e ingiustificabili ragioni di matrice ideologica, dall’esatta conoscenza e comprensione dei fatti.
La storia di quelle terre di confine è stata da sempre segnata dal gioco dei contrapposti interessi delle nazioni che se le contendevano; dopo la fine del periodo di prosperità e di pace, vissuto sotto l’impero austro – ungarico, terminato con la prima guerra mondiale, la contrapposizione tra componente italiana e componente slava venne volutamente esasperata dalle dissennate politiche di italianizzazione forzata del regime, vista, da una certa storiografia politicamente orientata, l’origine di una giusta rappresaglia degli slavi, oppressi dagli italiani fascisti.
In realtà, uno strisciante odio di classe, da parte degli slavi, in gran parte contadini ed operai, appartenenti ai ceti più umili, nei confronti degli italiani, spesso borghesi benestanti, sorresse le violenze e diede libero sfogo ad invidie e rancori covati per anni; l’appartenenza al fascismo o la presunta contiguità con esso, sono state usate come facile alibi da quanti, per convinzione ideologica, per l’effettivo supporto fornito ai partigiani jugoslavi e, più tardi, per imbarazzo istituzionale, durante la storia dell’Italia repubblicana, vollero ammantare di sostanza politica le ondate di violenze che comprendevano anche l’elemento fascista, ma erano dirette soprattutto contro l’identità italiana e contro la possibilità che l’Italia potesse mantenere la sovranità su Istria, Fiume e Dalmazia, nonostante la sconfitta bellica.
L’infoibamento di migliaia di italiani (secondo alcune stime, non meno di 5.000, con un massimo di 10.000), che le autorità jugoslave, negando qualsiasi forma di collaborazione, non hanno mai accettato di quantificare esattamente, è stato dunque l’epilogo di una lunghissima e radicata tensione sociale; le profonde cavità carsiche, sono divenute la tomba di numerosissimi italiani in due momenti ben precisi della seconda guerra mondiale: nel settembre – ottobre 1943 (quando, appunto, venne seviziata ed uccisa Norma Cossetto, ritenuta fascista solo perché figlia del podestà di Visinada, suo paese natale), dunque, durante il vuoto di potere seguito all’armistizio, e nella primavera del 1945, a conflitto concluso, quando Tito volle attuare l’eliminazione di massa di tutti quelli che, ai suoi occhi, potevano rivelarsi potenziali nemici del suo grande progetto nazionalista, tanto ambizioso quanto fragile e la cui dissoluzione sarebbe sfociata nel sangue delle guerre dei Balcani degli anni ’90.
Fu in quel frangente, al quale si sovrapponeva la spinosa questione della spartizione del territorio di Trieste, che le popolazioni giuliano – dalmate, pur presenti da millenni sul loro territorio, (Pola, nella sua storia millenaria, sotto Giulio , divenne Pietas Iulia e vanta un’arena in pietra d’Istria, seconda solo al Colosseo), capirono che solo abbandonando le loro case, smembrando intere famiglie e comunità, potevano tentare di salvarsi: così Zara, Spalato, Fiume e Pola si svuotarono letteralmente. A Pola, in particolare, su 31.700 cittadini, 28.058 scelsero, o meglio, furono costretti a scegliere, l’esilio e, con ogni mezzo e da ogni parte dell’Istria e della Dalmazia, partirono quasi 350.000 persone, che non fecero più ritorno. L’esilio, cosa poco nota, è durato fino al 1975, in quanto, al Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947, (dal quale deriva la data scelta nel 2004 per il Giorno del Ricordo), che assegnava Istria e Dalmazia alla Jugoslavia, seguì il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, che fissò definitivamente i confini precedentemente individuati, anche rispetto alla Zona A di Trieste, lasciata all’Italia e alla Zona B di Trieste, ceduta alla Jugoslavia.
A tale fase storica, altra cosa poco nota, appartiene il complesso, ma, alla fine, beffardo passaggio – per gli italiani – dell’opzione di cittadinanza: il trattato di Parigi, infatti, stabiliva, all’art. 19, che i cittadini domiciliati fino al 10 giugno 1940 in un territorio ceduto dall’Italia alla Jugoslavia, avrebbero perso automaticamente la cittadinanza italiana, salvo il diritto di opzione per mantenerla, da effettuare entro un anno dall’entrata in vigore del trattato medesimo; l’opzione, però, qualora esercitata, comportava l’abbandono della propria città. Insomma, la Jugoslavia, una volta accertata la volontà degli italiani di rimanere tali, li costrinse a trasferirsi in Italia, pena lo scadimento nella condizione di apolide. Ciò prolungò l’esodo in termini di numero delle partenze e di durata; moltissimi, poi, a seguito di questi fatti, furono gli apolidi di origine italiana.
Emerge dunque chiaramente che il vero oggetto del contendere non era la connotazione fascista del nemico politico, esaurita con la fine della guerra, ma un’identità, quella italiana, da colpire e da distruggere, per il predominio territoriale ed il subentro in posizioni sociali prima irraggiungibili.
Ad infoibare intere famiglie, infatti, non furono degli sconosciuti, ma, come nel caso dei Cossetto, padre e figlia, vicini di casa e compaesani slavi noti da sempre, in una folle azione di odio ideologico e di rivalsa sociale.
Norma Cossetto, infatti, giovane studentessa istriana, rapita, torturata e infoibata a 24 anni, è assurta a simbolo di una gioventù spazzata via dopo atroci torture (i suoi carcerieri, tutti partigiani, abusarono ripetutamente di lei mentre era legata ad un tavolo) e, nonostante ciò, ancora oggi, quando, in un sussulto di dignità, si propone di ricordarla, intitolandole una via o un parco, c’è chi si oppone! In realtà, nulla, di ciò che accadde, a lei e agli altri italiani gettati, spesso ancora vivi, nelle foibe, si può giustificare in nome della rivalsa contro “i fascisti”.
E nemmeno negare il rispetto, la pietà e la memoria.
Non si nega che ricostruire simili vicende sia difficile, ma è inaccettabile che quanti sono in possesso dei dati e dei documenti idonei a condurre alla verità, si ostinino ancora oggi, in una patetica opera di arroccamento, spacciata per revisionismo, a raccontare versioni distorte e ancora traboccanti di odio.
Ecco perché riflettere nel nome di chi ha pagato il prezzo più alto dell’altrui ferocia non è un’operazione sovranista, ma un atto di onestà intellettuale, per tentare di rimarginare una ferita ancora aperta, per riunire una parte importante e, per troppo tempo, rimossa e rinnegata, della comunità italiana.
Avv. Fabrizio Lanzi
Dott.ssa Simonetta Pozio