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PILLOLE DI PSICOLOGIA – Il suicidio: quella bestia nera che accompagna la depressione

Nuovo appuntamento con la rubrica "Pillole di Psicologia" a cura del dottoressa Elena Cagnacci che affronta le tematiche più importanti del settore e chiarirà i vostri dubbi. In questo articolo si parla di suicidio e depressione. Per inoltrare le vostre domande potere scrivere redazione@ilclandestinogiornale.it con oggetto “Pillole di Psicologia"

Sempre più spesso i telegiornali parlano di persone che si suicidano; noi stessi abbiamo parlato di suicidio in adolescenza, più raro ma anche meno comprensibile ed è frequente, in questi anni di crisi, sentir parlare di persone che si tolgono la vita a seguito delle pressioni e delle incombenze economiche. Ma quanto è frequente il suicidio? A quale età ciò accade più frequentemente?

Il suicidio è una realtà in crescita nel mondo: si pensi dal 1960 al 2012 il tasso di suicidi nei paesi in via di sviluppo è aumentato del 60% e la crescita aumenta sempre di più. In Italia, nel 2012, le morti per suicidio sono state circa 4000 (4,7 morti per 100.000 abitanti; 7,6 per gli uomini e 1,9 per le donne). Come accade nel resto del mondo, sono le persone anziane a commettere più spesso il suicidio (1 suicida su 3 è un ultrasettantenne) ma, come abbiamo anche visto ultimamente, il tasso di suicidi tra i 15 ed i 25 anni arriva al 12% ed è la seconda causa di morte tra i maschi di quella fascia di età, con un numero inferiore solo a quello per incidente stradale (35%).

Ma cosa si cela dietro un gesto così disperato? Sicuramente il suicidio è sempre un messaggio, in qualche modo è l’unico modo che la persona ha trovato per comunicare la propria sofferenza. Nella maggioranza dei casi alla base del gesto suicidario c’è un disturbo dell’umore, più frequentemente quello depressivo, ma può esserci anche l’uso di sostanze, rintracciabile maggiormente tra gli adolescenti (e sempre per ciò che riguarda loro il bullismo o il cyberbullismo può essere un’altra causa).

Ci sono alcune teorie che ritengono che vi siano fattori che possono intervenire nella decisione di commettere il suicidio: la percezione di “non appartenenza” senza speranza di cambiamento, la convinzione di essere un peso per gli altri ed un ridotto timore della sofferenza fisica e della morte.

Le prime due riguardano il desiderio di morire e sostengono un’ideazione suicidaria passiva, vale a dire che se non sento di appartenere a niente o nessuno, e dunque vivo un intenso senso di solitudine, e se sento di essere un peso per i miei familiari, rimuginerò spesso sulla possibilità di non esserci più, e potrei anche iniziare a pensare a come potrei farla finita (e per inciso il metodo più frequentemente utilizzato è l’impiccagione per entrambi i sessi). Tuttavia, affinché si passi all’azione, secondo queste teorie interpersonali, deve sussistere l’ultima variabile, ovvero il ridotto timore della sofferenza fisica e sembra che vi siano frequentemente gesti autolesionistici che precedono il tentativo di suicidio. Tali gesti in un certo senso è come se “desensibilizzassero” la persona dalla paura di morire e dalla sofferenza fisica.

Bisogna rammentare, tuttavia, che queste sono solo teorie e che frequentemente ci sono dei fattori che possono considerarsi “di rischio”, quali ad esempio il vivere in una famiglia conflittuale, l’avere ingenti problemi economici, l’essere soli, l’essere alcolisti o l’essere dei giocatori d’azzardo compulsivi o l’avere un disturbo dell’alimentazione come l’anoressia. Certamente è più frequente che il suicidio segua ad un periodo di grave depressione non adeguatamente trattata e che rappresenti per la persona l’unica via d’uscita possibile. Inoltre, un ulteriore fattore di rischio è che ci sia stato un precedente suicidio all’interno della famiglia, poiché in qualche modo è come se si rompesse un tabù e che questo atto divenisse qualcosa di “fattibile”.

Esiste infine un ampio numero di “suicidi sommersi”, ovvero di persone che gradualmente smettono di vivere, morendo di solitudine e di inedia. Spesso queste persone, ultrasessantenni, semplicemente smettono di curarsi e di assumere i farmaci ad esempio per il diabete o l’ipertensione o per il cuore, ecc… suicidandosi così gradualmente, senza commettere azioni cruente “ufficialmente ed attivamente”.

Ricordandosi quanto poc’anzi affermato, ovvero che il suicido è sempre un messaggio che non dà la possibilità di risposta – e in un certo senso è un estremo atto di “potere” giacché il suicida si mette nella condizione di far sì che nessuno possa rimediare a quel gesto ormai irreversibile – è essenziale che le persone che circondano la persona depressa non si spaventino del vissuto depressivo che quella persona presenta e che trovino il modo di portarla all’osservazione di uno specialista.

Elena Cagnacci, psicologa e psicoterapeuta

Dott.ssa Elena Cagnacci  Psicologo – psicoterapeuta
Consulente tecnico d’ufficio del Tribunale di Velletri
Consulente di mediazione familiare
Via Gorizia 17 (Nettuno