Il caso della dipendente del Comune, in forze alla Polizia locale di Anzio, Maria Cupelli, che ha ricevuto una nota disciplinare dal Comune a due giorni dalla pensione ha suscitato un dibattito social non indifferente sulla libertà di espressione, di critica, il diritto di dire la propria.
Il tema, per ovvi motivi, ci appassiona, facciamo i giornalisti per informare, per dire la nostra, per esercitare il diritto di critica direttamente o dando voce ai cittadini che segnalano problemi, disagio, malcontento. Ora un richiamo alle leggi che regolano al materia sembra importante.
“Ogni singolo cittadino – lo ricordiamo – ha il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Tale diritto trova fondamento e riconoscimento nella nostra Costituzione, all’articolo 21. Non solo, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha definito la libertà di espressione il fondamento della società democratica”. C’è tuttavia un però.
“Tale principio trova applicazione anche in ambito lavorativo all’articolo 1 dello Statuto dei lavoratori, che però afferma la necessità di contemperare tale libertà al rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello statuto medesimo.
In particolare, l’esercizio del diritto di critica trova un limite nel dovere di fedeltà nei confronti del datore di lavoro ex art. 2105 c.c., obbligo che va inteso in senso ampio, posto che non attiene solo agli aspetti patrimoniali del rapporto, e dunque al divieto di conflitto di interessi o di concorrenza, ma anche ai più generali canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto tra le parti. Si tratta di aspetti che attengono all’inserimento del lavoratore nella struttura e nella organizzazione dell’impresa e che si riverberano, inevitabilmente, sul funzionamento della stessa: essi, se violati, possono ledere il vincolo fiduciario sul quale si fonda il rapporto di lavoro. Nella sentenza n. 1173/1986 della suprema Corte si trova ben riassunto il punto di approdo interpretativo: «Il comportamento del lavoratore, consistente nella divulgazione di fatti ed accuse, ancorché vere, obiettivamente idonee a ledere l’onore o la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, quale espressione del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, e può configurare un fatto illecito, e quindi anche consentire il recesso del datore di lavoro ove l’illecito stesso risulti incompatibile con l’elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che sia imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa, e che non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione».
Ora la domanda è: che cosa ha scritto Maria Cupelli per scatenare la nota disciplinare?
Il post in replica alla nota stampa dell’assessore Salsedo, pubblicato sulla pagina sociale del Comune di Anzio, e che si è guadagnato 59 mi piace è il seguente:
“Gentile Assessora ma di quale odio parla, se Lei non sa distinguere il confronto, il dissenso, anche quello più aspro o ironico dall’odio, forse non è adatta a ricoprire il ruolo che occupa. Tirare in ballo la immane tragedia di Ardea è cosa vergognosa a dir poco. Ogni cittadino, anche quello più sfigato, ha il diritto di guardare per aria e commentare: ” ma che è sto pupazzo”. Se poi si scopre che il pupazzo è costato circa 10.000 euro e qualcuno chiede conto di ciò, non lo fa perché vuole seminare odio, lo fa perché vuole seminare trasparenza e diritto di critica. Concetti molto semplici, si fidi. Gentile Assessora il Suo comunicato andrebbe rimosso al pari del fantoccio”.
Probabilmente il dipendente del Comune Maria Cupelli avrebbe potuto dire, come molti, che la famigerata statua non era all’altezza delle aspettative, le valutazioni sulle qualità dell’Assessore invece, e l’invito alle dimissioni sono questione politica ed è probabilmente questo il vulnus della contestazione.
Resta una presa di posizione dura, e oggi la domanda che ci viene in mente è questa: se un redattore avesse usato questi termini nei confronti del suo caposervizio o del Direttore che ogni mese gli paga lo stipendio? Magari sotto un post sulla pagina del giornale?
Se una commessa di un supermercato avesse commentato così sotto il post del suo datore di lavoro, del suo direttore di reparto? Che conseguenze ci sarebbero state?
Nel privato, neanche a dirlo, la domanda è simbolica. Nel pubblico invece ci sono, da sempre, maggiori garanzie.
Esprimere la propria opinione è sacrosanto ma bisogna essere pronti a pagarne il prezzo, facendo riferimento a regole che sono destinate a tutti, indistintamente. Se un dipendente di centrodestra avesse mosso accuse identiche ad un’Amministratore di centrosinistra il richiamo ci sarebbe stato lo stesso? In un altro comune il commento di Maria Cupelli sarebbe passato inosservato o sarebbe stato comunque segnalato?
In una città in cui si ragiona per opposte fazioni e con il principio “il nemico del mio nemico è mio amico” ognuno può rispondere per sé, tanto persino i colori non sono uguali per tutti se la categoria di riferimento che si usa per ragionare è ‘amico/nemico’. Il Direttore
Daniele Reguiz