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Alicandri: “Il 25 aprile è una festa antifascista, la Resistenza non è finita”

"Con l’avanzare della primavera si arriva inevitabilmente alla Festa della Liberazione. Un’occasione di rimembranza da sempre avvolta in interminabili polemiche

Il consigliere Roberto Alicandri

“Con l’avanzare della primavera si arriva inevitabilmente alla Festa della Liberazione. Un’occasione di rimembranza da sempre avvolta in interminabili polemiche politicizzate. Celebrazione tradizionalmente associata ai movimenti di sinistra, il 25 aprile è ostracizzato da partiti di destra, più o meno estrema, che ne vorrebbero alterare il significato e ridisegnare così la memoria collettiva, togliendone la matrice antifascista. Alle più conosciute revisioni, si aggiunge la proposta di Fratelli d’Italia che propone di istituire una giornata di ricordo delle vittime di tutte le guerre e del coronavirus. Questa idea è molto grave per due motivi. In primo luogo, per quanto la retorica odierna tenda ad accomunare la battaglia contro la pandemia a un intervento militare, il paragone tra i due incentiva una propaganda dell’odio e del sospetto, invece di propugnare la solidarietà. In secondo luogo, rappresenta ancora una volta un tentativo di snaturare il 25 aprile, rendendolo una commemorazione di vittime, una memoria mesta, quando invece il suo scopo è esattamente il contrario.
Perché allora il 25 aprile è una festività così controversa? Che significato ha oggi la memoria della Resistenza?
Le ragioni di questi dibattiti hanno radici ben più profonde dell’abituale tendenza italiana a polemizzare su qualsiasi argomento. Secondo alcuni studiosi della “giustizia di transizione”, una possibile spiegazione della polarizzazione della memoria della Resistenza e la percezione del 25 aprile come una festa solo “rossa” è il risultato del fallimento del processo di riconciliazione del dopoguerra.
Ricostruire una società dopo un conflitto è una sfida difficile e raramente indolore. Numerose strategie sono state messe in atto, da quelle più marcatamente sanzionatorie, come l’istituzione di tribunali internazionali per i crimini di guerra; a quelle invece che cercano di ripristinare la situazione precedente attraverso amnistie generali; a quelle incentrate sul confronto tra vittime e carnefici e alla riconciliazione tramite il perdono. Nel secondo dopoguerra, l’Italia, contrariamente alla Germania, che optò per un approccio prettamente penale e la creazione di un Tribunale apposito, ovvero il Tribunale di Norimberga, decise di adottare un modello “spurio”. La transizione dal fascismo alla democrazia fu segnata da due momenti, il primo col decreto legislativo n. 159 del 1944, era anch’esso di stampo penale, con uno spirito più vendicativo che riconciliatorio. Questo slancio punitivo si estinse ben presto e dall’aprile 1944 al dicembre 1949 furono emanati ben 24 provvedimenti tra amnistie, indulti e condoni, fino ad arrivare al 22 giugno 1946, “l’amnistia Togliatti”, quando fu concessa l’amnistia per tutti i delitti politici commessi dopo l’8 settembre 1943 e gli atti di appoggio al fascismo e le condotte di collaborazionismo. Alcuni processi vennero in effetti conclusi (da ricordare il Tribunale militare di Roma per i crimini commessi alle Fosse Ardeatine e quello di Bologna per quelli di Marzabotto, conclusi con sentenze di condanna all’ergastolo), tuttavia l’amnistia Togliatti ebbe certamente un effetto dirompente, tanto da suscitare alcuni dubbi di eccessivo indulgenzialismo. Di certo dietro questa scelta si legge la volontà politica di prediligere la pacificazione sociale alla vendetta. Tale riconciliazione, di fatto, non avvenne. E a rendere ancora più evidente la profonda divisione del paese fu il ritrovamento in un palazzo romano dei fascicoli per i crimini di guerra tedeschi illegittimamente archiviati nel 1960, il cosiddetto “Armadio della Vergogna”.
L’esperienza italiana mostra da un lato e “drammaticamente” che l’assenza di una chiara attribuzione di responsabilità è una delle cause per cui non si è potuta stabilire una memoria condivisa. Inoltre l’Italia ha preferito la rimozione del passato fascista, in nome della riconciliazione nazionale e la ricostruzione del paese: questo obiettivo non è stato però raggiunto, la memoria collettiva e condivisa tra le due parti del conflitto non è mai stata creata e il paese è rimasto diviso.
Rileggere la storia del dopoguerra ci fa capire i motivi di alcune dinamiche odierne. In particolare, questo excursus di giustizia di transizione italiana serve a spiegare per quale motivo feste come quella del 25 aprile siano tanto controverse. Nonostante la transizione a democrazia, il silenzio, l’occultamento di crimini e l’assoluzione da responsabilità hanno fatto sì che non ci sia mai stato una vera e profonda rottura con il regime fascista.
Di fronte a questa profonda ferita mai sanata, nel 2021 è necessario ancora una volta ricordare che il 25 aprile è una festa di tutti. La Festa della Liberazione è l’unico momento di memoria collettiva, in cui tutto il paese si raccoglie per celebrare la fine del regime dittatoriale fascista e il trionfo dei valori di libertà e democrazia. Come detto all’inizio, l’associazione di questo giorno a una festività prettamente “rossa” è solo il frutto di quella mancata riconciliazione post-bellica e alla mancata creazione di una narrativa comune. Ricordiamo che le Brigate partigiane erano composte da antifascisti ma che in questa categoria si incontravano militanti provenienti dai più disparati gruppi politici. Dalle più famose Brigate Garibaldi, organizzate dal Partito Comunista Italiano; alle formazioni di Giustizia e Libertà, coordinate dal Partito d’Azione e dal Partito Repubblicano Italiano, alle Brigate Fiamme Verdi, nate da ufficiali alpini ma legate alla Democrazia cristiana; per arrivare alle formazioni azzurre monarchiche.
Il 25 aprile è il ricordo della lotta, dell’antifascismo, ma non deve essere intesa come una memoria “statica”. Il valore della storia non si misura soltanto nel comprendere quali siano le nostre radici e il nostro passato ma, ancora di più, nel conferirci strumenti per analizzare meglio il presente. Raccontare il fascismo storico e saper riconoscere il fascismo odierno, che non può presentarsi come quello d’allora, ma che non di meno ripete i caratteri del fascismo eterno, ovvero il virilismo, il culto della bella morte, l’elitarismo posticcio e il conseguente disprezzo del più povero, la narrazione di una comunità necessariamente coesa, mai attraversata al suo interno da conflitti, e la conseguente individuazione d’un nemico sempre straniero.
La memoria costruisce la nostra identità ma al tempo stesso ci dà gli anticorpi per evitare di cadere negli stessi errori del passato. Ecco perché è così importante avere una visione condivisa di quello che sono state le cose, sia agli occhi delle vittime che dei carnefici. Non solo per perdonare e per andare avanti ma per andare oltre.
La Resistenza non è finita. In effetti, il sogno dell’Europa Unita ha le sue radici proprio nell’esilio, nella Resistenza. I suoi ideatori ebbero già allora il coraggio di andare oltre, di guardare al di là del processo di ricostruzione nazionale e dei compromessi ideologici: quello che loro auspicavano era una solidarietà di più ampio respiro, una “pace perpetua” di kantiana memoria, una riconciliazione che travalicasse i confini degli stati e abbracciasse i cittadini dell’intero continente, travagliato dal conflitto. Questo processo non è però ancora concluso. L’Europa è ancora ancorata a meccanismi intergovernativi, succubi degli umori dei singoli capi di governo.
Ecco perché è importante celebrare il 25 aprile e perché questa ricorrenza non deve essere snaturata del suo significato antifascista. Bisogna custodire le occasioni di memoria collettiva e ricordare che la Liberazione è stata una vittoria per tutti. E che la resistenza non è finita.
Appaiono quindi quanto mai odierne le considerazioni di Pier Paolo Pasolini che nei suoi “Scritti corsari” del 1975 scriveva: “Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale”.
Roberto Alicandri