“Tutto quello che vorrei è che qualcuno mi dicesse che ho fatto bene a lasciare mio padre in ospedale e che non dovevo invece portarlo via, come mi diceva mia madre. Vorrei che mi dicessero che nonostante alcuni errori mio padre non si sarebbe salvato, così potrei dormire tranquillo e pensare che come figlio ho fatto la cosa giusta”. Inizia con queste parole lo sfogo di Nicola Scione il cui papà è morto in ospedale ad Anzio dopo un calvario iniziato il 3 dicembre a seguito di una caduta e si è concluso il 21 gennaio con il decesso a causa di una polmonite bilaterale massiva, contratta sempre in una struttura medica. Nicola Scione, mai esasperato e fuori le righe nella sua richiesta di chiarimenti, alla fine di questo doloroso percorso ha presentato un esposto alla Procura di Velletri, con la richiesta di sequestro delle cartelle cliniche e della documentazione sanitaria del padre Aldo.
La storia di Aldo
Questa la sua storia: “Il 3 dicembre 2016 – si legge nell’esposto – mio padre, già affetto da emisindrome spastica da ischemia cerebrale avvenuta ad aprile 2014, cadeva a terra ed avvertiva un intenso dolore alla gamba. Il giorno seguente, dato che i dolori anziché diminuire aumentavano, chiamavamo il 118 affinché mio padre venisse portato al più vicino nosocomio per le cure del caso. Al Pronto Soccorso presso il Presidio Ospedaliero di Anzio mio padre veniva sottoposto agli esami strumentali necessari per accertare la sussistenza di una sospetta frattura del femore, all’esito dei quali veniva diagnosticato un mero trauma contusivo alla coscia sinistra e un trauma cranico. Dopo le dimissioni, lo stato di salute di mio padre non migliorava ed il dolore alla gamba restava costante, tanto da indurci a contattare nuovamente il 118, chiedendo questa volta di condurci presso la Casa di Cura Sant’Anna di Pomezia, dove però la situazione non cambiava poiché dalle lastre non risultava alcuna frattura all’arto inferiore e veniva pertanto nuovamente prescritta l’assunzione di Tachipirina. Dopo circa dieci giorni, non essendovi miglioramenti, abbiamo deciso di rivolgerci ad una fisioterapista di nostra conoscenza, la quale visitando mio padre si accorgeva di una posizione scorretta del bacino, ritenendo potesse essere causata dal femore che si trovava completamente fuori asse; all’esito di tale visita decidevamo di comune accordo di contattare un fisiatra il quale confermava quanto spiegato in precedenza dalla fisioterapista. Chiamavamo quindi il 118 a bordo del quale fortunatamente si trovava un fisiatra dell’Ospedale che, al nostro arrivo presso il Pronto Soccorso, prescriveva immediatamente nuove lastre, che confermavano questa volta la frattura del femore”.
La degenza
“Il fatto che non si siano accorti subito della frattura ha creato molto dolore a mio padre – spiega Nicola – ma è una cosa che può evidentemente accadere, e soprattutto si può rimediare”. “Il 23 dicembre, dopo aver svolto diverse analisi per valutare lo stato di salute di mio padre – si legge ancora nell’esposto – si decideva di intervenire chirurgicamente. Al termine dell’operazione in un primo momento uno dei medici ci comunicava che nonostante alcune difficoltà l’intervento era riuscito; nel pomeriggio però uno degli ortopedici che ci spiegò che durante l’intervento era stato commesso un errore pertanto si rendeva necessario intervenire nuovamente. Il 24 dicembre mio padre veniva sottoposto ad un secondo intervento. Il 30 dicembre veniva effettuato il trasferimento presso la Casa di Cura Villa dei Pini per la riabilitazione, dove tutti gli esami risultavano nella norma. Nei giorni seguenti notavamo il progressivo deterioramento delle condizioni di salute di mio padre, che non dimostrava appetito ed anzi cominciava a respirare molto faticosamente. Nonostante avessimo più volte evidenziato il respiro affannoso, nessun sanitario della Casa di Cura riteneva ci fossero particolari problemi poiché le analisi erano tutte positive. L’ 8 gennaio mi recavo con mia madre e mia sorella presso la Casa di Cura per andare a trovare mio padre e lo trovavamo in grave stato confusionale, con una grave difficoltà respiratoria ma, nonostante i tentativi di allertare il personale medico, veniva liquidato tutto come una semplice stanchezza dovuta alla mancanza di sonno ed all’inappetenza. L’ 11 gennaio dopo diverse proteste veniva fatta una TAC toracica a mio padre, all’esito della quale si riscontrava una bronchite trattata con una flebo di fisiologica ed una cura antibiotica per il manifestarsi di un’ infezione alla gamba in sede di intervento. Il 15 gennaio le condizioni di mio padre, nonostante un iniziale miglioramento dei giorni precedenti, precipitano improvvisamente, tanto che i medici furono costretti a somministrargli diversi farmaci dopo averlo trovato incosciente, in coma diabetico, sul proprio giaciglio. Fortunatamente mio padre si sveglia ed i parametri vitali migliorano ma uno dei medici della Casa di Cura ci informava della “grave infezione” alla gamba, pertanto veniva trasferito nuovamente presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Anzio. Qui mio padre iniziava a ripresentare problemi respiratori evidenti ed un anomalo gonfiore all’addome, ma per tali problematiche i medici ritenevano di non doversi preoccupare. Grazie alle nostre insistenze però mio padre veniva sottoposto ad una nuova radiografia toracica, grazie alla quale veniva diagnosticata una polmonite bilaterale massiva. Iniziata la cura antibiotica, mio padre sembrava migliorare tantissimo, soprattutto a detta del personale. Inaspettatamente quella sera, dopo essere rientrati presso la nostra residenza, ricevevamo una chiamata dall’Ospedale nella quale ci comunicano l’aggravarsi delle condizioni di salute di mio padre che alle 22.25 del 21 gennaio 2016 decedeva”.
La richiesta alla Procura
“Chiediamo, attesi i fatti esposti, che l’Autorità Giudiziaria voglia disporre gli opportuni accertamenti relativi al caso in esame, onde verificare eventuali profili di responsabilità penale in capo ai medici che hanno preso in cura il mio prossimo congiunto, ovvero la struttura ospedaliera di pertinenza, come sopra individuata, disponendo, se del caso, l’acquisizione della cartelle cliniche integrali relative ai fatti come sopra esposti, nonché un esame autoptico sulla salma del nostro caro incaricando all’uopo un perito”.
L’amarezza della famiglia
“Nei suoi ultimi giorni di vita – spiega Nicola Scione – mia madre mi chiedeva di portare via mio padre, in un’altro ospedale. Io ero contrario, lo vedevo debolissimo e pensavo che il viaggio lo avrebbe potuto davvero uccidere e non avrei davvero saputo dove altro portarlo. Abbiamo sempre avuto un atteggiamento collaborativo con medici e infermieri, non abbiamo neanche mai insistito perché controllassero meglio quando segnalavo il suo affanno nel respirare. Abbiamo visto che il Pronto soccorso è sempre carico di lavoro, che spesso non ce la si fa e magari qualche volta il personale è sgarbato perché le persone sono maleducate e ci vanno anche per un unghia rotta. Tutto questo è persino sopportabile – conclude – ma mi sembra incredibile che mio padre sia morto di polmonite e infezione mentre era ricoverato in due strutture sanitarie e che i medici che hanno avuto a che fare con lui non siano riusciti a salvarlo. Spero che un giudice mi dica che davvero non poteva essere curato meglio, perché il pensiero che portandolo via lo avrei potuto salvare è insostenibile”.